La religione è un campo d'applicazione assai vasto che ingloba tanti altri campi, che secondo la chiesa sono comunque tutti subordinati alla teologia, la "somma scienza", come voleva Leone XIII.
Proprio per questa caratteristica, però, è assai facile dire la propria opinione in "teologia": Dio appartiene a tutti, e tutti ne sono "esperti" tanto quanto in fatto di sport o di moda.

Quando si parla di "esperti" nel senso del termine, in un settore dello "scibile" quale potrebbe essere quello della teologia, non possiamo certo dire d'avere a che fare con dati empirici; ma d'altronde, essa perdura proprio perché, assai comodamente, asserisce di parlare di cose che esistono perché non ne abbiamo evidenze dirette!

L'istruzione odierna che porta alla formazione del "dottore", in qualsiasi campo esso sia (ma in special modo storico, archeologico, "teologico"), è pilotata da sempre affinchè non si esca dal seminato; lo vediamo ad oggi, per quanto sta accadendo nelle università italiane. Se il plagio non è diretto e sfacciato, l'ambiente, le intrusioni e vari espedienti di contorno, assolvono all'uopo. In tal senso, quel pezzo di carta sarà più che altro un attestato del miles christi addottorato e benpensante, che non potrà mai sognarsi d'imboccare strade "alternative", soprattutto perché sono foriere di "pericoli" di varia natura, differentemente dalla comoda uniformazione alla cosiddetta mainstream.

Sarebbe assai facile dire che l'opinione di un teologo protestante o non-cristiano (ma quant'anche fosse un filosofo o un libero pensatore laico) sia preconcetta. Sussiste, inoltre, il paradossale pregiudizio per cui chiunque si dedichi a cose religiose senza essere un prete, sia indubbiamente un individuo "strano": come dire, "l'anomalia" di un laico "curioso" sarebbe più strana di quella di elementi sociali che rifiuta tutto quanto è normale nella società umana!

La gente trova ridicoli gli studiosi che provano ad attaccare la religione: qualcuno che sente il bisogno di sbraitare contro il" principio del Bene", avrà sicuramente qualche problema tale da renderne inutile lo sforzo. Ad esempio, la psicologia è stata definita molto spesso una non-scienza in primo luogo da coloro i quali paventano da parte sua la distruzione delle illusioni superstiziose: chiaramente, la psicologia è scienza per quel che riguarda i suoi metodi, sebbene questi ultimi siano allegati a degli effectors (i pensieri) di cui vediamo soltanto gli effetti (qualora attuati in pratica). Invece, la teologia è definita "scienza assoluta" in quanto, pur non avendo termini noti o accertati su cui basare la propria credibilità, ha come punto fermo l'esistenza di qualcosa che, pur essendo invisibile, è sovrumana fonte di Bene; in questo i teologi possono far credere inconsciamente alla gente che, pur qualora non esistessero delle prove, Dio c'è comunque. Purtroppo per loro, non esiste una teologia fine a sé stessa (ossia "scienza") che desume i suoi dati da osservazioni e calcoli: e questo, proprio perché non si riesce a cogliere Dio coi sensi, laddove evitiamo di capire che si tratta di una banale distorsione ideologica.<%pagebreak()%>Non è l'abito né l'inclinazione né la dedizione a un argomento specifico, che fa "l'esperto" onesto. Per quanto riguarda i dati storici e di natura variamente documentaria, penso che per un tipo di "studioso" del genere sia possibile dimostrare tutto e il contrario di tutto, disponendoli in modo acconcio tramite opportune funzioni dialettiche supportate dal placet della referenza di studioso, se non fosse che la dimostrazione storica non sia questione di mole di dati, bensì d'etica ragionativa: e questo non solo perché, in certi casi, la storia, come disse quel tale, è "un'opinione sulla quale tutti concordano".

Per quel che concerne le dimostrazioni logiche, penso non sia necessario un dottorato in qualsivoglia disciplina, per constatare un'evidenza lampante quale è l'inesistenza di Dio, ovvia a qualsiasi uomo dotato di buonsenso scevro da artifici sofistici.
Esistono, però, attestati attribuiti a persone che hanno sentito la missione di dimostrare il contrario: l'attestato dell'apologeta di professione, che fa dell'amoralità e della verbosità un attrezzo di palestra del convincimento. C'è anche una sorta di auto-compiacimento, in questi personaggi; è il compiacimento di un individuo fondamentalmente debole, che tenta continuamente di convincere in primo luogo se stesso nel predicare il "vero" agli altri. Non importa che il suo sforzo sia logico e razionale: nel cristianesimo la "razionalità" è un termine oltremodo poliedrico, dacché la Chiesa asserisce che la ragione non possa "spiegare tutto" (men che mai l'insondabilità di Dio: che i dotti però ben comprendono!), pretendendo però che il cristianesimo stesso sia la "più razionale delle religioni". Affermazione che, oltre ad essere provocatoria, è estremamente controproducente.

Cosa distingue, allora, il "serio studioso"? Il suo bagaglio culturale, l'accademia da cui è uscito ed in cui insegna, la pacatezza nelle conclusioni, o forse la "disciplina"? È un serio studioso un individuo che propugna una tesi quale l'esistenza di Dio o la validità di scritti riferentisi a realtà meramente assurde? Possiamo forse aspettarci obiettività da parte di tutti quegli studiosi, laici o meno, nei loro referti e nelle loro conclusioni, qualora saranno stati incapaci di scindere la professionalità dalla credenza?<%pagebreak()%>A parer mio, gli studi storici possono essere delle armi a doppio taglio, qualora si fermassero solamente alla documentazione letteraria; difatti, molto spesso gli storici (soprattutto quelli di stampo clericale) non riescono a districarsi da una mole di dati che, pur essendo comunque finiti in senso quantitativo, possono essere giustapposti a seconda del senso da ottenere, offrendo in tal modo l'illusione dell'infinitezza e del realismo. Qualora lo storico prescindese dal supporto dell'antropologo, dell'epigrafista, del linguista e soprattutto dell'archeologo, le sue conclusioni avranno un valore molto relativo ed incanalato sul prestabilito.

Certamente, chi dice che sia possibile convalidare un mito asserendo che sia storia partendo da "prove documentarie", propugna qualcosa di preoccupante; dall'altro canto, quegli studiosi (o presunti tali) che pensano sia impossible provare o confutare qualcosa fuorchè con "il giusto metodo", dicono qualcosa di risibile. Non credo siano le "prove" documentarie, a corroborare un mito: la persistenza di queste prove nei secoli è stata data dalla persistenza del preconcetto di Dio, dall'ostruzione violenta secolare e soprattutto dalla loro natura, che è criptica. In questo caso, dovremmo guardare piuttosto al buonsenso, che ci palesa l'evidenza dell'inesistenza di dèi e affini, piuttosto che alle "prove documentarie".

Queste ultime possono essere infinitesime, anche perchè si crede sempre di poterne scoprire altre: ma fino a quel momento, saranno sempre le stesse fonti. Gli "studiosi" si accaniscono su di esse, spaccano il capello, "interpretano" e "vidimano", applicano metodi e pindarismi, e poi tornano a corroborare la prospettiva prestabilita, dopo aver fatto finta d'aver dubitato. Avranno applicato un metodo di preconcetto, perché in fondo, che si tratti di fonti vecchie o di documenti "da scoprire", saranno sempre la "solita roba".
L'ennesimo "nuovo documento" che sosterrà la divinità di Gesù, non farà certo scalpore: sarà usato soltanto per rassicurare i creduli e i loro mentori. Ne farà, invece, un documento che ci confermerà ad esempio che si sia trattato di un partigiano, di un parente degli Erodiani, del figlio bastardo di un imperatore o quant'altro che si discosta dalla visione inveterata: sempre nel caso in cui i "dotti" non lo considererano un documento "poco serio" proprio per questo motivo.

Quando si tratta di argomenti del genere, la serietà di una ricerca non è data dal "rigore metodologico"; è ridicolo già il solo pensare il contrario. Possiamo applicare un metodo nella comparazione delle fonti, qualora ciò ci portasse a scoprire qualcosa dietro le righe; ma non possiamo applicare un metodo a ciò che, per stessa definizione degli Ispirati, trascende la nostra comprensione.

La storia non è un problema di dati, ma del modo in cui li si usa, di là del fatto che siamo costretti ad usare quelli che possediamo, non ad inventarcene altri per soddisfare ipotesi di bottega. Vediamola pure, questa metodologia, come spiega il documento L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, edito dalla Biblica Commissione Pontificia nel 1993:

"Benché ogni lettura della Bibbia sia necessariamente selettiva, sono da evitare le letture tendenziose, cioè quelle che, invece d'essere docili al testo, non fanno che utilizzarlo per i loro fini limitati, come nel caso dell'attualizzazione fatta da alcune sétte, per esempio i Testimoni di Geova. L'attualizzazione perde ogni validità se si basa su princìpi teorici che sono in disaccordo con gli orientamenti fondamentali della Bibbia, come, ad esempio, il razionalismo opposto alla fede o materialismo ateo. Va evidentemente condannata anche ogni attualizzazione orientata in senso contrario alla giustizia e alla carità evangelica; ad esempio quelle che vorrebbero basare sui testi biblici la segregazione razziale, l'antisemitismo o il sessismo, sia esso maschile o femminile. Un'attenzione particolare è necessaria, secondo lo spirito del Concilio Vaticano II [Nostra Ætate 4], per evitare assolutamente d'attualizzare alcuni testi del Nuovo Testamento in un senso che potrebbe provocare o rafforzare atteggiamenti ostili nei riguardi degli ebrei. Gli eventi tragici del passato devono, al contrario, spingere a ricordare senza posa che, secondo il Nuovo Testamento, gli ebrei restano «amati» da Dio, «perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili»".

Quindi, sebbene la lettura della Scrittura sia già selettiva, ovvero passibile d'interpretazione e "specialistica", è necessario evitare delle attualizzazioni che si discostino dal senso del testo (che è già interpretato...)!
Mi pare di ricordare, però, che la Bibbia non sia certo scevra da implicazioni razziali, sessiste, xenofobiche: ma è chiaro che ciò non toglie sia comunque un "libro sacro", qualora "giustamente interpretato".

Invero, l'unico motivo per cui i "profani" o gli "studiosi improvvisati" potrebbero astenersi dall'incunearsi in labirinti d'oscenità quali i dedali delle superstizioni teoriche, è semplicemente il disgusto e il senso di perversione della realtà che esse suscitano con la loro dedizione all'Improbabile; ma dall'altro lato è anche vero che, nell'impossibilità di conoscere finalmente qualche "studioso accreditato" che non susciti sgomento e revulsione, spesso tocchi ai comuni mortali sobbarcarsi al compito di ritrovare una strada diritta in una selva di elucubrazioni tortuose, se non altro a vantaggio loro e di coloro ai quali essi tengono.
In fondo, il disgusto e l'élitarismo sono proprio un'altra arma su cui simili espedienti di contollo contano, allo scopo d'allontanare i curiosi: non c'è dubbio, però, che per curare un male occorra conoscerlo ben a fondo, anche a costi proibitivi per i "comuni mortali".
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