|
|
|
|
|
Chiunque resiste alle autorità, resiste a ciò che dio ha istituito, e deve essere punito. .. Paolo di Tarso. |
|
|
Colui al quale si deve sostanzialmente la risoluzione dell'estensione del messaggio di Gesù dai soli ebrei a tutta l'umanità, è un esempio emblematico di sinergia tra varie culture: in Paolo di Tarso si ritrovano, infatti, tutti gli elementi di fusione fra paganesimo e "nazireismo". Per meglio dire, dato che fu proprio lui ad aver costruito di fatto il cristianesimo così com'è oggi, non è nemmeno improbabile che tutte queste concezioni furono convogliate da lui in seno a una religione fino ad allora ancora spoglia di documentazione e culto: fu il Tarsiota, l'artefice della continuità fra paganesimo astrale e la "religione recente", come la chiamava lui, e del distacco dal giudaismo.
La sua città di provenienza fu una metropoli cosmopolita del passato, quadrivio d'intensi contatti tra varie culture. Fondata dagli assiri quasi mille anni prima, quest'antica città rimase molto importante sin da qualche secolo dopo Diocleziano, divenendo soprattutto il fulcro della superstizione astrale. Ci troviamo in un territorio che spazia dall'odierna Turchia fino al Caucaso: l'influsso di importantissime civiltà indeuropee scomparse (hittiti ed hurriti, che furono a loro volta in stretto contatto con gli egizi, i popoli mesopotamici e gli ebrei, mescolati alla nouvelle vague ideologica post-ellenistica) era ancora molto vivo. Per un certo periodo di tempo, Tarso fu insieme ad Antiochia il crogiolo di formazione di tutte le credenze e le superstizioni dell'epoca, ospitando i culti di Dioniso, Mitra, Sandas ed altri ancora; il tutto ben miscelato con gnosticismo ed altre ideologie filosofico-speculative d'ultima fattura alessandrina.
Ad ogni modo, a parte le nozioni autoctone di Tarso ed i misteri dionisiaci di Corinto, molto sicuramente Paolo assorbì proprio gli influssi della vicina Antiochia: non lontano da Tarso, nella vicina Tiana, si favoleggiava sulle imprese del gimnofista Apollonio, filosofo peripatetico discepolo di Pitagora che aveva viaggiato fino in India per apprendere i segreti della misteriosofia orientale. Ma questa è un'altra storia.
Trovo estremamente singolare un personaggio che si professa predicatore di una chiesa ancora inesistente (1), propagandista sconosciuto di un dio oltremodo ignoto fuor dalla cerchia di coloro ai quali l'aveva promosso, tanto quanto lacunosa e quantomeno inconsistente è la sua biografia, salvo i brevi tratteggi fatti negli Atti da Luca e da qualche agiografo secoli dopo (2).
Se tentiamo di ricomporre lo strano puzzle che lo riguarda, notiamo che l'attore principale della svolta cattolica sarebbe un sedicente ex persecutore dei miti cristiani, convertito dall'apparizione di Gesù stesso, in cui nome diceva di portare la salvezza non più soltanto ai giudei, bensì a tutto il mondo; inoltre, non solo invita ad abolire i costumi giudaici, ma suggerisce ai giudei di perseverare nell'assoggettamento ai romani, dai quali ultimi viene mandato a morte... dietro sobillazione dei primi! Nella perversa Lettera a Timoteo, aveva anche potuto affermare anche che "tutti coloro i quali stanno sotto il giogo come schiavi, stimino i loro padroni degni d'ogni onore, affinché il nome di dio e la dottrina non sia bestemmiata". Come se non bastasse, dice pure di promuovere un Cristo addirittura migliore di quello noto alla comunità di Pietro e Giacomo, diretti conoscenti e apostoli di quello stesso Gesù!
La cosa diventa ancora più strana soprattutto se si tiene conto che Paolo dicesse d'essere sì un ebreo romanizzato, ma soprattutto un fariseo hilleliano, ovverosia seguace di rabbi Gamaliel I, adepto di una corrente politica contraria ai princìpi d'acquiescenza schiavistica che egli stesso propugnava.<%pagebreak()%>Non è improbabile che Il Tarsiota fosse un agente del Sinedrio, un doppiogiochista aduso a pratiche covertistiche sottili, beninteso, nell'ottica per cui il Senato ebraico era null'altro che uno strumento romano. Strano è anche che a un privato vengano affidati dei delicati compiti di polizia di norma delegati alle autorità competenti soprattutto in Siria, ben lontano dalla giurisdizione dell'Alto Sacerdote di Gerusalemme, che per inciso non aveva autorità nemmeno sulle sinagoghe; senza contare il fatto che un fariseo non poteva diventare guardia del Templio a meno di circostanze straordinarie.
Malgrado le sue curiose credenziali, il cittadino romano Paolo è incarcerato, portato a Roma per ben due volte ed infine giustiziato con l'accusa di tradimento. Tutto ciò ha oltremodo del singolare, dato che la Cilicia parrebbe esser diventata agli effetti provincia romana solo dopo Caracalla (3), ossia un secolo e mezzo dopo, tant'è che neppure Geronimo sembra esser stato convinto delle origini di Paolo, al punto da presentarlo come originario di Giscala, concittadino dell'avversario di Taddeo il Ladrone.
La tradizione lo vuole martirizzato a Roma guarda caso durante il regno del figlio di Agrippina, ma la notizia è da prendere con cautela, di là del fatto che gli Atti terminano senza conchiudere la questione; Flavio si trovava a Roma proprio in quel tempo per perorare appunto dinnanzi a Nerone la causa di alcuni ebrei accusati di ribellione da parte di Floro, ma stranamente non menziona due leaders presumibilmente così ben in vista e vocianti come Pietro e Paolo, pur avendo parlato di Giacomo, conoscente del secondo e giustiziato nello stesso anno in cui sarebbe stato condannato il Tarsiota, che a quel tempo fu giudicato pure da Marco Felice, di cui persino Tacito parla assai diffusamente. Geronimo attesta, inoltre, che Pietro fu a Roma a partire dal 42, e vi rimase per venticinque anni fino al 67, mentre Paolo ci dice che il secondo si trovava in Palestina nel 45, ove rimase fino al 57; ma in realtà, il tredicesimo apostolo non sa alcunché di Pietro neppure quando si trova nella capitale, come possiamo notare dalle comparazioni cronologiche.
A tutte queste stranezze, sicuramente potremmo aggiungere qualche altro dettaglio molto più rivelatorio, già che abbiamo parlato di Flavio. Nei suoi scritti, quest'ultimo fa riferimento a un tal Saulo, che funse da mediatore durante la prima guerra giudaica: costui era fratello di Costobaro, figlio di Cipro, moglie di Antipatro II, la cui sorella Berenice era nonna dell'omonima degli Atti, che poi fu pure amante di Tito.
Costobaro, della famiglia erodiana, era idumeo ed aveva sposato Salomé, sorella di Erode il Grande; Saulo aveva a sua volta un fratello di nome Costobaro e una sorella chiamata Cipro. Quello di Epafrodito, amico di Paolo, fu anche il nome dello schiavo segretario di Nerone (la cui moglie simpatizzava per i giudei, dice Flavio), che Paolo saluta nella Lettera ai filippesi insieme a tutta la corte di Cesare, da lui chiamati "i santi (!) che sono con me"; questo liberto (noto per aver affrancato il collega stoico frigio Epitteto, acre fustigatore dei costumi dei galilei) prestò servizio presso i due successivi imperatori, prima d'essere giustiziato da Domiziano per il suo ruolo nella morte di Nerone, nello stesso anno in cui muore Agrippa II: egli è, inoltre, l'editore delle opere di Flavio, che scompare proprio nel medesimo periodo.
Non stupiscano le inquietanti analogie con le note flaviane. Sulla carta Flavio sarebbe addirittura un ex sadduceo diventato fariseo, il quale, dopo la vittoria di Tito, passò dalla parte dei romani e fu adottato dall'imperatore, ricevendone la cittadinanza, il gentilizio e una nutrita pensione che gli permisero di darsi alla scrittura a tempo pieno. Al pari di Paolo, poco sappiamo di lui a parte quel che egli stesso ci fa conoscere nella sua biografia; sta di fatto che egli visse in Palestina dalla nascita al suo espatrio, frequentando Roma sporadicamente, e, come Paolo, pure Flavio è un altro che afferma d'aver avuto una visione: dio gli annunciava Vespasiano incoronato imperator del mondo, cosa che gli farà giustificare la defezione dalla parte del nemico.
Più tardi, Flavio cercherà di riproporre il suo ruolo nel conflitto: laddove nella Guerra Giudaica, scritta nel 75, si mostra come un generale della Galilea, nella sua biografia, pubblicata venticinque anni più tardi, è uno dei tre sacerdoti inviati in patria per ordinare ai partigiani di deporre le armi. Pure qui abbiamo un'analogia con Paolo, che nella Lettera ai romani intima ai connazionali di seguire come unica legge quella di tacere, onorare dio e pagare i tributi allo stato.
Fortunatamente si tratta di mere coincidenze: curiose, ma solo coincidenze. Come quella di Giuseppe d'Arimatea, ennesimo personaggio che sbuca dal nulla nell'ennesimo episodio incidentale, ove è descritto come un fariseo che faceva parte del Sinedrio, ma non aveva partecipato alla votazione contro Gesù.
Pure in questo caso non esiste alcun dato extra-evangelico in merito a tale personaggio e alla sua città di provenienza, tuttora ignota al pari di tante altre elencate nei vangeli. La curiosità è che ritroviamo un passo analogo alla richiesta di Giuseppe d'Arimatea del corpo di Gesù a Pilato nel Contra Apionem di Flavio:
"Fui inviato ancora una volta da Tito [...] presso un villaggio chiamato Techoa, per ispezionare se fosse buona per accamparsi, e, al mio ritorno, vidi parecchi prigionieri crocefissi; ne riconobbi tre. Mi si spezzò il cuore, e, piangendo, dissi a Tito ciò che avevo visto. Egli ordinò che fossero tirati giù immediatamente. Due morirono sotto i ferri; il terzo sopravvisse" (75).
Senza volermi far trascinare dalle notevoli analogie già riscontrate negli scritti flaviani, a questo punto sarei piuttosto propenso a pensare che il nome del fantomatico zio di Gesù provenga da qualche distorsione di "Giuseppe bar-Matthias".
(1) Secondo gli Atti, la chiesa fu creata nel d30, ovverosia tre anni prima della morte di Gesù, e addirittura non a Gerusalemme, ma ad Antiochia: a parte ciò, dovette trattarsi di un'istituzione clandestina, tant'è vero che nessun altro documento cristiano ed extra-cristiano dell'epoca ne parla, quantunque a sentire le pretese di Paolo dovette aver avuto già sin dall'inizio circa mezzo milione di aderenti, peraltro quasi tutti ebraici e diffusi in zone che nulla hanno mai saputo del cristianesimo quantomeno fino a cento anni dopo.
(2) Addirittura, a Efeso, poi sede del concilio che sancì la verginità di Maria e già patria della vergine Artemide, Paolo trova dei seguaci del Battista i quali ignorano chi sia questo fantomatico "Gesù", che proprio a detta di Paolo era stato visto da mezzo migliaio di persone dopo la "resurrezione".
(3) L'osservazione è stata fatta da Voltaire, apportando come fonti Grozio e Cellario specificatamente a proposito di Tarso. I dati in possesso ci portano ad inferire che la Cilicia fosse sotto il potere romano già a partire da prima della conquista di Pompeo, nel 67; dati che dovettero esser stati noti alle autorevoli fonti voltairiane, che potrebbero comunque aver alluso piuttosto al fatto che possa esservi stato un periodo (magari non coperto dalla storiografia) in cui la regione tornò sotto il dominio romano: a meno che non si riferissero a qualche statuto speciale che non estendeva la cittadinanza ai cilici fin prima della Constitutio di Caracalla, appunto. |
|
Tutti i diritti riservati. Qualsiasi riproduzione senza previo accordo con l'Autore è proibita. |
|
|
|
|
|
|
|
|
|