Perfetta è quella mente che, in suprema ignoranza, conosce il supremo inconoscibile.
.. Massimo il Confessore.
Potrebbe riuscire difficile immaginare che non sia possibile distinguere fra l'impegno di ricerca e la religione nella quale si è stati allevati; riuscirebbe ancor più difficile nel caso in cui non si considerassero le motivazioni per cui , molto spesso, scienziati di chiara fama si adagiano supinamente ad associare due distinti campi dell'attività mentale, con grave rischio non tanto per la loro credibilità, bensì per la formazione dell'opinione pubblica. Questo accade non di rado, ed altrettanto di frequente si verifica un processo d'inversione della causa.

Non stupisca che i nuovi defensores abbiano gioito, allorquando Hawking ha ritrattato le sue precedenti teorie riguardo ai buchi neri: per loro, se un teorema è fallace, tutto il resto è altrettanto fallace. Per loro, questo significa che Hawking possiede dei preconcetti, in quanto ateo: ed implica pure che, in fondo, la scienza non potrà mai pervenire a conoscenza di tutto! Sia chiaro: nemmeno i teologi sanno tutto, ma per loro il "tutto" è un'estensione di Dio, e con tale asserzione implicano di saper già tutto pur non sapendo nulla, poiché Dio è... inconoscibile! La loro "umiltà", insita nell'ammettere d'essere sottomessi ad un essere superiore, li rende già superiori a chi non crede in esso. In fondo, Hawking è un caso isolato: e finché rimarrà isolato (soprattutto grazie al fatto che non tutti riescono a comprendere la complessità della fisica...), i saltimbanchi detrattori della Ragione potranno pensare d'averla vinta.

Molto spesso, però, la religione si è appropriata di parecchie scoperte scientifiche al fine di piegarle a necessità esegetiche. Vero è che esistono uomini di chiesa astrofisici, matematici, chimici: ma bisogna vedere se questi riescano a scindere la fede dal calcolo. La storia si ripete: se nella Grecia classica e alessandrina la figura del sacerdote caldeo decadde al rango del mistificatore di professione, i greci stessi non esitarono ad equivocare la ricerca scevra da presupposti deistici alla stregua dell'ateismo, cosicché fin quando uomini come Archimede si contentavano d'occuparsi delle loro leve senza pretendere di dire che le leggi fisiche sconfessavano il Preconcetto Ultimo, tutto andava bene. Lo stesso accadde anche nei secoli successivi: casi esemplari — forse oramai sin troppo inflazionati — come quello di Galileo Galilei mostrano un campionario congruo alla statistica dell'avversione nei confronti della libera ricerca.

"Sebbene la Scrittura non può errare," scriveva lo scienziato

"talvolta potrebbe nondimeno errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori, in vari modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani [...] Ma quel medesimo dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l'astronomia, di cui ve n'è così piccola parte, che non vi si trovano neppur nominati i pianeti".

"Decrepite e ridicole mi sembrarono" continua Galileo "le teorie bibliche", ma non ebbe timore di far partecipe della nuova visione

"quella chiesa che, depositaria del sapere, era giudice vigile e saldo di tutto quel che in Italia si scriveva allora: fuori di lei non v'era che il silenzio, scelta che fosse o imposizione. La museruola che serrava la bocca di Giordano Bruno mentre che, denudato, era trascinato al rogo, era per me prova assai accomodata a significar le intenzioni della Curia [...] Ignoravo allora che il potente cardinal Bellarmino cominciava a nutrir sospetti circa le conseguenze delle mie scoperte sulla tradizionale vision del mondo, quella tenuta dalla chiesa".

Una nobile motivazione, forse inquinata dal carattere scontroso dello scienziato, la cui colpa, affermò a suo tempo Wojtyla, fu quella d'aver provocato i suoi accusatori con la propria alterigia e la recalcitranza a piegarsi al volere della curia; Lisia non avrebbe trovato argomentare migliore, nei parenti di Eratostene... Non contento di ciò, il pontefice asseriva che lo scienziato fu nientemeno che precursore delle proposizioni del Vaticano II in merito alla compatibilità tra fede e scienza; pretesa strana, dato che certuni nuovi apologisti hanno ribadito che Galileo, ora divenuto "buon cristiano" per i soliti predatori di cadaveri eccellenti (lui, "che, se rispetto portai alla rivelata religione, unicamente fu per la sua azione nella storia e il suo potere sulle genti!"), non avesse ancora chiaro questo dualismo.

Non mi stupisce che la maggioranza delle persone malinformate ritengano Galileo, Bruno, Darwin e tanti altri personaggi scomodi, rei di una qualche colpa recondita, e continuino a pensare che in fondo qualcosa di vero nelle Scritture deve pur sempre esserci, qualora indagate oltre il loro "senso apparente"; ciò, nonostante — precisava il pontefice — la condanna del Pisano fu dovuta a un caso di erronea interpretazione delle Scritture da parte degli accusatori, di un "tragico malinteso reciproco"! Espedienti del genere equivalgono a dire che i calcoli di Usher siano sbagliati quando si tratta di premettere che la Bibbia si esprime "per metafore", intendendo quello che è la durata del nostro giorno solare come un periodo infinitamente più lungo, laddove, fin quando conveniva, l'arcivescovo inglese era portavoce di verità sacrosanta; la cosa è oltremodo anomala, poiché fra pochi vescovi romani dimostratisi in un certo qual senso poco inclini ad adottare un atteggiamento schiettamente reazionario, Wojtyla ha sempre palesato un vivo interesse per le scoperte scientifiche.

Altri si sono semplicemente limitati a dire che Galileo non scoprì nulla di nuovo, e che furono certi suoi colleghi laici, specialmente gli aristotelici di Pisa, ad aver dato il la alle indagini della curia, che del resto si limitò "solamente" a minacciarlo di tortura e lo condannò "soltanto" agli arresti domiciliari vita natural durante, evitandogli graziosamente di fare la stessa fine di altri predecessori ed epigoni trascurati dalla carità petrina! Si evita di rammentare che codesti uomini di scienza (dalla preparazione addirittura non inferiore alla sua, dicono certuni) fossero in aperto legame con un circolo di gesuiti e cardinali che s'erano prefissati il deliberato proposito di ostacolarlo. Uno di questi Carneadi, tal Scipione Chiaramonte, così giustificava le posizioni della vera scienza, con pindarismi di chiaro rigurgito neoplatonista indirizzati all'attenzione del futuro papa, ripetendo nella sua Difesa quella che in fondo era l'opinione scientifica accettata da tutti, laici o meno:

"Gl'animali, che si muovono, hanno muscoli e arti: la Terra no. Ergo, non si muove. Sono gli angeli che fanno muovere Saturno, Giove, Venere... Se la Terra si muove, dovrebbe avere anch'essa un angelo al suo centro che la muove: ma solo i demoni vivono al centro della Terra. Pertanto, è forse il diavolo a far muovere la Terra? [...] I pianeti appartengono tutti a una sola specie, quella delle stelle. Pertanto, è cosa greve enumerar la Terra, ch'è cosa impura, fra questi corpi celesti, che sono di pura natura divina!".

Nell'Anticopernicus Catholicus, il collega Polacco così enunziava:

"Le sacre scritture rappresentano sempre la Terra immobile, e Sole e Luna in moto, e se questi due fossero stati immobili, le scritture avrebbe parlato di miracoli. Le eresie di Galileo devono essere proibite perché insegnano princìpi ripugnanti alle sacre scritture ed alla loro interpretazione cattolica; ciò dev'essere non per ipotesi, ma per fatti accertati".

Poi, con tono vittorioso e un occhio al prelato:

"Quando l'opera venne mostrata all'Inquisizione, Galileo venne gettato in prigione e venne obbligato ad abiurare la bassezza del suo dogma!".

Indi Polacco si dà volenterosamente alla fisica comparata, ma con ben magri risultati:

"Se volessimo concedere che la Terra si muove, per qual motivo, allora, una freccia scagliata in aria cade sempre nel medesimo posto, mentre la Terra e tutte le cose che gli stanno sopra si sono mosse velocemente verso est? Chi può non vedere quale confusione degenera da questo moto? [...] La teoria copernicana è contraria alla natura stessa della Terra, che è fredda, e quindi opposta al moto, com'è evidente dagli animali, che diventano immobili quando sono freddi".
<%pagebreak()%>Prendendo finalmente le distanze da certe trovate giustificatorie, il problema non consiste nel creare eroi o mostri, nei mezzi di coercizione adusati o meno, né nello sviluppo di una vicenda, bensì nell'ideologia e nell'ostilità preconcetta nei confronti di tutto ciò che non si allinea al precostituito, da cui i paradossi e le contraddizioni potevano essere falsificati secondo una normativa già condensata al 6.20 della prima lettera a Timoteo che lascia ben poco a qualsiasi interpretazione retroattiva.

Quantomeno, il mistagogo cilicio si mantenne entro i limiti della decenza: de parte sua, l'allucinato d'Ippona ebbe a scrivere che il buon cristiano dovrebbe fare attenzione ai mathematici, ossia astronomi e astrologi, poiché essi "hanno fatto un patto col diavolo per oscurare lo spirito e confinare l'uomo a un legame con l'inferno". Qualche secolo dopo, Pier Damiani, cancelliere di Gregorio VII ed aspro censore della dilagante omosessualità clericale de' tempi suoi, classificava la ricerca scientifica alla stregua di vanità e stupidaggini di cui si può fare perfettamente a meno; perciò, scriveva ne Dominus vobiscum

"respingo Platone, che fruga gli occulti segreti della natura, che fissa i termini alle orbite dei pianeti e fa oggetto di calcoli il corso degli astri; disprezzo di pari Pitagora, che colla verga geometrica distingue le varie zone del globo terrestre [...] sprofondino nelle loro tenebre quanti han la faccia imbrattata d'umana sapienza! Lungi da me quanti sono accecati dal sulfureo baglior d'una caliginosa dottrina! La semplicità di cristo mi sia d'esempio; l'ingenuità dei veri sapienti mi liberi dall'impaccio dei miei dubbi!".

Parecchio tempo dopo, Calvino si accomodava:

"Dobbiamo leggere la scrittura con lo scopo di trovarvi cristo. Chi s'allontana da questo scopo, potrà spendere anche tutta la sua vita nella ricerca e nello studio, ma non arriverà mai alla conoscenza della verità. Possiamo forse essere sapienti senza la sapienza di dio?".

Il suo pard Lutero, di cui Wojtyla ha recentemente riabilitato la figura spirituale, concordava:

"Il pazzo, Copernico, asserisce che la Terra gira intorno al Sole; ma Giosué nella Bibbia comanda al Sole di fermarsi, non alla Terra! Costui intende ribaltare secoli di astronomia, a modo suo [...] A meno che io non sia convinto dalla ragione e dalle scritture, la mia coscienza è prigioniera della parola di dio [...] La ragione, vile prostituta: deve essere estirpata dagli occhi d'ogni cristiano!".

Perché mai gli echi di tali proposizioni si avvertono a tutt'oggi? A sentire opinioni del genere, a questo punto non credo affatto che qualsiasi teoria scientifica, proprio per il fatto d'essere scevra da presupposti confessionali, possa mai guadagnare in toto la fiducia e l'accettazione di chi basa la propria prospettica su di essi nonostante si verifichi piuttosto la pretesa opposta, ossia il conformarli alle scritture: l'ultimo caso di "conciliazione" in ordine di tempo riguarda la teoria dell'evoluzionismo, oramai accettata quasi theilardianamente come "più che un'ipotesi", purché — dichiarò Wojtyla alla Pontificia Accademia delle Scienze nel 1996 — i cattolici non dimentichino che la creazione sia comunque dovuta a dio!

Naturalmente, qualsiasi argomento che riguardi la vita nel cosmo, parte dalla cosmologia e lì ritorna: che si tratti di Darwin o Hubble, accantonate le premesse di meccanica il problema pende quindi sulle eterne posizioni cosmologiche, pilastro portante di tutta l'architettura deistica, sicché non per nulla la politica del camuffamento continuò indisturbata per secoli superando con agio gli scogli di Bruno e Galileo, approdando nell'èra industriale non senza qualche difficoltà.

Se fino a Galileo col termine "universo" si poteva ancora intendere (così come intendevano i filosofi del passato) essenzialmente il sistema solare fin dove arrivava il loro sguardo, con l'avanzamento delle conoscenze astrofisiche tutto ciò non ebbe più ragione d'esistere. È naturale che, in condizioni del genere, anche per distogliere l'attenzione del dubbio sistematico scettico da propositi curiosi, si giunge persino a cercare di trarre convalida al Genesi appigliandosi alla teoria del Big Bang (peraltro formulata da un uomo di chiesa) e a parlare di un salvifico "universo infinito" appoggiandosi al modello cosmologico standard, malgrado le ultime tesi proposte a seguito di ricerce congiunte franco-americane hanno postulato che il cosmo sarebbe finito, spazialmente delimitato, contenuto nel vuoto e simile piuttosto ad una sorta di pallone da calcio... In pratica, una variante del dodecaedro già a suo tempo usato per dar forma al "cosmo" da parte del Demiurgo del Timeo platonico, saccheggiato a man bassa dai Padri.

Per certuni, questa nuova teoria rimane infondata, nonostante il suo principale ideatore non sia mai stato avverso a Lemaître: anzi, nonostante tutto, essa potrebbe anche essere utile dal punto di vista apologetico, dato che "comproverebbe la straordinaria perfezione di un universo geometricamente definito da qualche mente superiore", per parafrasare il giudizio del gesuita George Coyne, direttore dell'Osservatorio Vaticano di Tucson, a suo tempo fra i membri della commissione d'indagine sul caso Galileo e suo attuale acerrimo detrattore.

Dall'altro lato, parecchi apologeti si vedono costretti a ricusare la teoria del Big Bang proprio perché un modello meccanicistico del genere inficia il Preconcetto Ultimo, ma non si avvedono che negando tale evidenza contraddicono all'opinione dell'attuale papa, il quale, nel corso di una conferenza dell'Accademia nel 1984, ha asserito che agli scienziati è permesso indagare l'evoluzione del Big Bang, non il processo con cui è avvenuto, "poiché si tratta dell'opera di dio" (v. Hawking, A Brief History of Time)! Comunque sia, il modello Friedmann & Lemaître, chiaro postbaking del sistema di Creazione e Giudizio Finale delle "scritture" (1), persevera indisturbato e viene rielaborato in vari gusti nonostante le sue immense falle, e malgrado non implichi affatto né un processo creativo ab alio né un creatore, al punto che è stato utilizzato sia a pro che a contro dei "presupposti atei".

Tutto ciò in attesa del prossimo paradigma, magari aspettandoci pure che "alla fine", pur dopo conflitti e vicissitudini, la scienza si piegherà all'umile spiegazione biblica così come ci si attende per la conversione del noncredente, senza che sia possibile sapere se la conoscenza sia limitata per un limite intrinseco dell'esistenza umana — à la Schopenhauer — o se sia qualcos'altro ad inibirla ed indirizzarla su binari prestabiliti.<%pagebreak()%>Non credo che sia nemmeno il caso di parlare (come fanno certuni) di un dualismo fra due campi palesemente antitetici, col rischio di demonizzare piuttosto lo "scientismo" e scadere nel pacchiano, se non fosse che dai progressi del sapere traiamo i mezzi per dissipare le nebbie delle superstizioni; in certi casi, pur potendo apportare esempi a iosa, converrebbe fermarsi a un dato limite perlomeno per decenza, onde evitare di debordare nell'eccesso opposto.

Vilfredo Pareto, che portò sempre con sé il suo bagaglio filo-positivista e che pur non fu tanto tenero col determinismo, annotava il primo motivo di persistenza di caveat metafisicisti negli uomini di scienza:

"L'uomo non è un essere di pura ragione: è anche un essere di sentimento e di fede, e il più ragionevole non può esimersi dal prendere partito — forse anche senza averne la netta coscienza — a proposito di alcuni dei problemi la cui soluzione oltrepassa i limiti della scienza".

Con ciò, Pareto illustrava il medesimo errore tradizionale in cui incorre chiunque partendo dal presupposto che esistono realtà inconoscibili, così facendo secondo posizioni che si ricollegano al vizio atavico trasmesso nei secoli; in tal senso, l'inspiegato, ciò a cui da sempre è stata apposta l'etichetta di "inconoscibile", e che per tal motivo ha fatto effettuare apriori una chiusura d'indagine sul nucleo centrale dell'oggetto esaminato, si perpetua nei secoli costituendo una sacca di doppiofondo della realtà.

Con tali premesse non si parte né da un'indagine volta ad assodare il motivo per cui questo quid debba essere inconoscibile, né dalle origini della sua esistenza come idea, bensì dal contingente per cui essa stessa viene perpetuata. Va da sé che, qualora non tanto Pareto (il cui limite si ferma a questo punto), bensì qualsiasi filosofo si fossero chiesti l'origine dell'idea di dio, e se avessero scorporato l'evidenza dall'astrazione, non ci troveremmo ancorati su certi stalli, né saremmo costretti a procedere a ritroso sul paragone fra fede e scienza qualora questa "inconoscibilità" fosse stata intesa alla stregua di un'estensione d'ignoranza coartata. Quindi, la prima parte della premessa paretiana è valida e sensata; la seconda costituisce estensione del classico Limite.

"Non esiste un'astronomia cattolica e una atea" continuava il sociologo non senza sana ironia

"ma possono esistere astronomi cattolici o atei. Voler dimostrare il teorema del quadrato dell'ipotenusa con un appello agli «immortali princìpi del 1789» o alla «fede nell'avvenire della Patria», sarebbe perfettamente assurdo. E lo stesso che invocare la fede socialista per dimostrare la legge che, nelle nostre società, regola la distribuzione della ricchezza. La fede cattolica ha finito col mettersi d'accordo coi risultati dell'astronomia e della geologia; che la fede dei marxisti e quella degli etici procurino anch'esse di conciliarsi coi risultati della scienza economica".

Seriamente parlando, un religioso può anche essere un fisico, un ingegnere, un archeologo, ma è chiaro che esista una demarcazione fra compito principale (la vocazione) e indirizzo (la specializzazione); non di rado, parecchi scienziati di un certo rilievo sono stati anche dei religiosi, da Nollet a Zamboni, ma non è certo il voto fatto a dio a costituire una garanzia di genialità. Tolte le capacità personali, si tratta anche di un riflesso della condizione di religioso, del "genio" che lavora alacremente e con devota tranquillità immerso nella sua condizione felice e acritica di creatura più o meno consapevole d'essere sottomessa a un quid superiore all'uomo, conseguendo obiettivi univoci ma purtroppo, data l'origine della spinta inventiva, parziali; questo vale anche per gli scienziati religiosi laici. Casi di genii a loro tempo insigniti del Nobel, e smentiti da ulteriori scoperte effettuate da colleghi epigoni, non sono stati infrequenti; ma ciò non ha mai tolto il fatto che si trattasse di "menti luminose" per il limite del loro tempo. Quando, poi, questi stessi luminari facevano professione d'umiltà dinnanzi ad un Essere superiore, la loro fiaccola diventava intramontabile!

Una teoria scientifica e un dogma religioso condividono certamente anche fattori di formulazione basati sulla fantasia, sulla immaginabilità del possibile, ma laddove la prima deve fare i conti con oggetti-concetto empirizzabili, divenendo quindi passibile di revisionabilità, la seconda si ferma a uno stadio di pseudo-falsificabilità, quindi non consente un'astrazione lineare dai suoi modelli di riferimento, pertanto non può nemmeno assumere la pretesa della realtà ipotetica (anche perché, in caso contrario, cadrebbe il presupposto di verità aprioristica, di "mistero della fede").

In tal senso, riandando alla divergenza fa mediatori tecnologici e biologici, non esiste alcuna differenza superficiale fra un religioso e uno scrittore di fantascienza (Staples Lewis docet), dato che entrambi si astraggono dalla realtà positiva e la modellano secondo metodi che precludono il "dolore dell'accettazione della revisione", né ve n'è a livello di qualità d'azione fra l'immaginare nuovi mondi caratterizzati da livelli di conoscenza superiore a quello in cui si vive, e l'idea di luogo ultramundano di un religioso; in quest'ultimo caso l'unico distacco si avverte nell'oggetto, poiché il primo si rifà a concetti finiti, ossia desunti da un tentativo di superamento di ciò che l'uomo fa e conosce già, mentre il secondo attinge ad un background esclusivamente psichistico fondato su caratteristiche umane basilari (quindi la sua proiezione è più omnitemporale, ovvero supera le barriere della continua obsolescenza tecnologica, ponendosi in tal modo su un livello di persistenza più tenace in questo senso, ma pur sempre marginalizzato dalla parzializzazione divinistica).

Si tratta in entrambi i casi di tentativi di escaping, non di modelli realizzabili; ma laddove chiunque avrebbe potuto immaginare che quanto proposto da Verne avesse potuto avverarsi in futuro, che sia stato o meno realizzato sulla scia della fantasia dello scrittore, non si può dire la medesima cosa per quel che riguarda quanto presupposto da chi compilò il mito asimmetrico chiamato Genesi.

Converremo che riuscire a risolvere equazioni di terzo grado, inventare un nuovo polimero o qualche strampalata ma fruttuosa teoria cosmologica, non è diretta espressione dell'essere credenti, e dall'altro lato affrontare un argomento partendo dal proprio preconcetto di credenza significa chiaramente obliterare e distorcerne l'oggetto in base alle premesse della nostra stessa credenza; peraltro, ciò implica una visione parziale dell'argomento stesso e delle sue soluzioni. Molti scienziati di questo tipo, avvertendo "meraviglia" per il "creato", si perdono assorti all'interno del molteplice e del "complesso", e dimenticando di ritenerli categorie di un unico mattone fondamentale, si appellano ad "altro" per "spiegarle".

Sia chiaro, anche gli scienziati hanno un'anima (ed è sicuramente questa una delle ragioni per cui chiunque può credere in dio al pari di un qualsiasi buon selvaggio privo d'istruzione), ed è quasi atteso che una mente versata in ragionamenti rigorosi possa sentire la necessità di costituirsi al sentimento causa eccesso di rigore scientifico o meraviglia nei confronti di un mondo assai "ordinato", stupefacente e forse sin troppo comprensibile; ci si può trovare in certe circostanze spaziando dall'ultramacroscopico all'ultramicroscopico, quando si osserva un elettrone in una camera al plasma o ci si spinge ai limiti dell'universo visibile, non quando si implementano le leggi di Kirchhoff per risolvere una maglia circuitale, sebbene in fondo si stia lavorando sempre con i medesimi "mattoni".

Il discorso che magari ci sono leggi e cose che non potranno mai esser scoperte, non convalida di certo l'esistenza di un dio, che a questo punto le avrebbe celate ad infinitum (forse per proporle come articolo di fede...): penso, piuttosto, che il problema risieda ancora in una discrepanza dimensionale tra ciò che siamo e riusciamo a "maneggiare" o meno. Ad esempio, probabilmente non riusciremo mai a cogliere l'evidenza fisico-visiva di quel che è un "mattone" fondamentale della materia (la particella-base che deve costituire tutte le altre), dato che i nostri strumenti possiedono una "identità dimensionale" tale da non poter cogliere i sottomultipli della materia che li compongono; ma questo non deve essere affatto frustrante, anche perché per logica possiamo comunque arrivare a postulare che qualcosa di finale deve esistere per forza, poiché la materia (Presenza) non è infinitamente divisibile né ovunque in ogni tempo. Quindi, non credo proprio che la scienza debba sentirsi frustrata se commette errori (ed anzi, in questo è umile, a differenza di certi fallaci e primitivi libercoli mitologici cui pieghiamo il nostro progresso) o non ha ancora scoperto (o non scoprirà mai) certe cose: dovrebbe essere piuttosto preoccupata d'avere al suo interno dei "saboteurs" che collaborano alla sua squalifica nei confronti di poteri scriteriati ed interessati.

Piuttosto, dato che l'idea di supernaturale funge da booster per le facoltà elaborative (non sappiamo fino a che livello validamente, a questo punto), sarebbe ben più raccomandabile evitare di tirarla in causa nel caso in cui, tramite proiezioni estremamente velleitarie e personalistiche, si volesse supportare l'attendibilità di un particolare individuo, e, tramite questa, quella dell'ambiente formativo di cui è espressione la sua forma mentis — e che in fondo è la garanzia della sua sussistenza — come nel caso di credenti quali Compton, Lovell, Newton, Thompson, Lejeune o quel tal chimico-fisico vittoriano che risponde al nome di Frederick Guthrie, a suo tempo capace di profferire impunito le seguenti oscenità:

"Non devo nemmeno aprire la Bibbia per sapere se dio esiste. È sufficiente che apra i miei occhi e li rivolga al grande libro della natura, dove dio è leggibilmente scritto, chiaramente rivelato. Dio: parola che può leggersi sulle stelle [...] parola dipinta in un fiore, disegnata su ogni foglia, incisa su ogni roccia. Parola sussurrata dai venti, risuonata nei marosi dell'oceano, ed intesa anche dai più duri d'orecchie nei fragori del tuono. Io credo nell'esistenza di un dio, ma non nell'esistenza di un ateo e di chiunque altro lo neghi ed esiga d'essere ritenuto sano di mente!".

Ritengo sia più che risibile asserire che gli scienziati siano penalizzati nei confronti della "spiritualità" per via della loro forma mentis, e dall'altro canto gridare vittoria nel caso in cui qualche "esemplare" si mostri propenso ad exploits mistici, riuscendo simpatico nell'umiliarsi dinnanzi alla credenza comune. E non sono certo la maggioranza: le statistiche indicano che solamente il 37% degli scienziati, sia negli USA che in Italia, crede in dio. Chiaramente, si dà più diffusione a queste minoranze in qualità di "opinioni autorevoli", anziché pubblicare dati più realistici.

La scienza non spiega tutto, è vero: eppure, esistono "scienziati" che, proprio per questo motivo, pur meravigliandosi della "inspiegabilità" di certe "evidenze" della natura, continuano a rivestire il loro compito di ricercatori e luminari! Ricercatori di cosa, allora? Cosa "ricercano", se sanno già che dio è insito in tutto? Forse ricercheranno le prove del fatto che le cose stanno così come dicono i testi "sacri"? Se così dovesse essere, non dovremmo partire preconcettualmente da questi documenti, bensì da evidenze ben più lampanti: l'essere umano, fatto a "immagine e somiglianza" di dio, non è un tale da giustificare meraviglia incondizionata, per via di ben noti problemi che lo affliggono da sempre, e che sinora non siamo riusciti a risolvere, malgrado non abbiano alcunché di sovrannaturale; l'universo non è un granché neanch'esso; una particella elementare è quella che è, e basta. Casomai, ci meravigliamo chiedendoci perché l'uomo, l'universo e la particella sono così: ma ciò non implica affatto l'attribuire credito ad un "creatore", se non nel caso in cui non riusciamo a trovare risposte. E il fatto che non le troviamo ora, non significa che non ne troveremo molto presto, così come è successo in passato, dato che siamo in un campo speculabile, non certo nell'etere metafisico di entità intangibili e inafferrabili: come diceva Darwin, sono solo coloro i quali conoscono di meno, a credere che esistano cose inspiegabili all'infinito.

Eppure, ci si dimentica facilmente dell'evidenza, quando ci si appella alla scienza che "convalida" le scritture. Come dire: fin quando la scienza sarà usata per sconfessare la primitività deistica, essa non sarà valida, mentre lo diverrà magicamente quando sarà aggiogata all'abbandono in dio. Ossia, quando non già spiegherà, bensì fornirà motivi di "meraviglia" per i teisti. Quindi, da ciò si conclude che dio sia veramente la definizione sintetica che diamo alla nostra ignoranza.

La domanda è, dunque: potranno costoro scoprire mai qualcosa di definitivo, se la loro visione è inficiata da un'ideologia inquinante che ne mortifica l'espressione di ricerca obiettiva? Si risponde che credere in dio funge da freno inibitorio per evitare di essere troppo "liberi", ad es. quando si compiono sperimentazioni che potrebbero implicare effetti collaterali negativi; ma questo dovrebbe essere forse preferibile al dire che dio non esiste, responsabilizzando in tal modo lo scienziato su basi reali? Occorre fare un distinguo: c'è qualcosa di intrinsecamente pericoloso, ad es., nell'astrofisica? O forse è pericolosa quando mette in dubbio certe "verità" clericocentriche?

Potremmo apportare una gran mole di campioni indiziarii analoghi, a proposito dell'efficienza di queste pregiudiziali personalistiche (ad es. nel caso di Zichichi, che omettiamo per puro limite di spazio oltreché per evitare di screditarci ulteriormente), che talora travalicano in exploits estranei al buonsenso comune ed alla già vessata denominazione di "scienziato":

"Mi pare che, qualora confrontata con le meraviglie della vita e dell'universo, ci si deve chiedere il «perché», non tanto il «come». Le sole risposte plausibili sono di tipo religioso [...] Io sento necessità di un dio nella mia vita e nell'universo [...] Siamo fortunati a possedere la Bibbia, e specialmente il Nuovo Testamento, che ci parla di dio in termini umani, ampiamente accessibili" (Arthur Schawlow).

"Il significato e la gioia della mia scienza è insito nei momenti occasionali in cui scopro qualcosa di nuovo e dico: «Questo è il modo in cui dio l'ha fatto, dunque!». Il mio obiettivo è quello di capire un piccolo pezzetto del disegno divino" (Henry Schaefer).

"Se sapeste quali problemi hanno gli scienziati nella loro vita — orgoglio, ambizioni, gelosie —, queste sono proprio le cose che Gesù cristo, con la sua morte, è venuto a emendare. L'ambiente scientifico è pieno di individui carichi di egoismo, in perenne conflitto reciproco. Ma il vangelo è lo stesso per tutti quanti" (John Suppee).

"Trovo difficoltoso comprendere uno scienziato che non riconosce la presenza di un essere superiore dietro l'esistenza dell'universo, tanto quanto un teologo che vorrebbe negare i progressi della scienza" (Wernher von Braun).

"Così come credo che le Scritture illuminano il cammino verso dio, il libro della natura, con i suoi dettagli [...] suggerisce un dio ed un suo scopo nella creazione. E credo che la mia fede mi rende semplicemente uno scienziato" (Owen Gingrich).

"Quando ci si trova dinnanzi all'ordine ed alla bellezza dell'universo ed alle strane coincidenze della natura, si è tentati di passare dalla fede scientifica a quella religiosa. Desidererei che molti miei colleghi lo facessero: se solo lo ammettessero" (Tony Rothman).

"L'esistenza dell'uomo, dell'universo, è sempre stata giudicata un miracolo incomprensibile senza la premessa di un creatore onnipotente e onnisciente [...] Dio ha creato l'universo dal nulla, con un atto che ha portato persino all'esistenza del tempo (!). Le ultime scoperte, come quelle che hanno supportato il Big Bang e simili fenomeni astronomici, sono perfettamente compatibili con questo assunto" (Henry Margenau).

Tutte queste opinioni di charcotiana ambizione risulterebbero più che confinabili nel personalistico, qualora si tenesse a mente un'evidenza immediata: per fornire un'idea di massima sulle dimensioni dell'universo, che è composto da oltre cento miliardi di galassie contenenti ciascuna fino a mille miliardi di stelle, potremmo dire che il sistema solare nei suoi confronti equivale ottimisticamente a un granello di sabbia disperso in un kilometro quadrato di spiaggia, e l'uomo a una frazione di quark. Ritengo quindi che occorra una straordinaria dose di coraggio nel continuare a questionare sul fatto che questa mirabolante entità sovrannaturale ed inconoscibile — ma "sicuramente esistente" — non solo crei dal nulla qualcosa al cui confronto l'uomo non è neppure insignificante, sed etiam, a ricompensa di sì titanica impresa, in tutta la divina umiltà di cui è somma incarnazione Egli si contenta di ricevere il fumo d'una capra bruciacchiata offertogli dall'uomo, "questo verme, questo bruco", perlomeno stando al parere di uno dei pii compari di Giobbe.

Forse per tal motivo l'essere umano si ingegna costantemente per offrirgli delle oblazioni più adeguate; ma seriamente parlando, continuare a sostenere il contrario potrebbe anche rivendicare e magari riscuotere un suo senso "compiuto" nel mondo dei sogni necessari, non certo nella realtà.

(1) "Penso" ebbe a dichiarare Lemaître nel 1931, quasi riprendendo gli arcaismi gnostici di Paolo "che chiunque creda in un essere supremo che sostiene ogni essere e ogni atto, crede anche che dio è essenzialmente nascosto, e può gioire nel vedere in che modo la fisica attuale ha provvisto un velo di nascondimento per la creazione". In occasione della presentazione della sua teoria, questo fu l'esordio dell'allocuzione da lui tenuta all'Osservatorio di Monte Wilson: "In principio, vi furono fuochi d'artificio d'inimmaginabile bellezza. Poi un'esplosione, seguita da un gran fumo che riempì i cieli"!

Fuori da aneddoti indiziarii, fra i tanti l'errore principale dell'abate belga fu quello di muovere dalla circoscrizione che se l'universo era spazialmente finito, doveva esserlo anche temporalmente: si tratta di una sonora inferenza arbitraria, dal momento che la premessa di un universo spazialmente finito non implica che esso non possa anche essere eterno. Altrettanto chiaramente, lo diventa nel caso in cui si prepone che debba esserci un momento d'inizio, appunto la "esplosione" di un "atomo primordiale", "infinitamente denso", definizione classica nella terminologia informata a concetti fondati su proiezioni superative, tipici delle ideologie ebbre di religione ("infinitamente"). Non era nemmeno facile intendere il red-shift come un valore di spostamento intrinseco di ciò che è interno ad un sistema di riferimento, senza che tanto avvalorasse per forza di cose un universo dinamico in sé, indipendentemente dal "moto" delle sue "parti".
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